Zarathustra parla e dice moltissimo

Richard Strauss

Lui non è lo Strauss dei valzer viennesi

Nonostante Also sprach Zarathustra – poema sinfonico n. 20 – di Richard Strauss sia uno dei brani più noti, o meglio lo sono le sue primissime battute, non avevo mai avuto l’occasione di ascoltarlo dal vivo.
Le aspettative erano grandi e i preparativi fervevano: Avantiveloce e la sottoscritta avevano discusso a lungo se fosse o no il caso di presentarsi in auditorium travestiti da scimmioni o di portare un simil-monolite da adorare o almeno delle discretissime ossa di pollo da brandire al momento giusto… … ma alla fine vinse il decoro sabaudo e non si fece nulla di tutto questo (per fortuna!).

Così, mentre stavamo seduti composti senza peli né tibie tra le mani, arrivò il fatidico momento: trombe, tromboni, timpani, grancassa e Zarathustra iniziò a parlare e io scoppiai a ridere.

L'incipit dell'opera

L’incipit di Also sprach Zarathustra

Perché mi venne da ridere in un momento tanto solenne?
Un po’ perché si sa che sono sciocchina, un po’ per smorzare proprio la solennità del brano e un po’ perché mentre la musica esplodeva davanti ai miei occhi non c’era più il palco con l’orchestra nazionale della Rai ma il parallelepipedo nero, il mitico monolite, con il sole che sorge alle sue spalle e il mio sguardo era quello dello scimmione che sta per brandire l’osso e spaccare tutto.

2001 odissea nello spazio

L’ominide scopre la Verità e come prima cosa spacca tutto a mazzate e tale è rimasto nei secoli.

Suoni quindi che si caricano di immagini, così come Stanley Kubrick per il suo 2001 Odissea nello spazio aveva scelto suoni già a loro volta carichi di parole, di storia e di vissuto.
Scegliere di inserire un brano classico, ancor più se universalmente noto al grande pubblico, in una sequenza cinematografica ha una funzione estetica molto forte, in quanto arricchisce le immagini di concetti ancora più profondi, interagisce con il film in modo attivo, sovrapponendo al discorso filmico il suo potenziale evocativo dando così vita a un rapporto simbiotico in cui ciascun linguaggio estende l’altro, fino al raggiungimento di un nuovo significato.

Mi trovavo quindi all’interno di un circolo tutt’altro che vizioso: Strauss che parte dalla filosofia di Nietzsche per comporre il suo poema sinfonico, Kubrick che riutilizza la musica di Strauss per “caricare” di significato le sua immagini e raccontare dell’ominide che illuminato dalla Verità diventa (super)uomo e io che a mia volta sovrappongo all’esperienza musicale le immagini cinematografiche.

Non si può prescindere da quanto si è visto e da quanto ci ha colpiti nel profondo, così l’esperienza artistica – musicale, cinematografica o pittorica che sia – porta sempre con sé parte del nostro vissuto.
L’arte nell’istante della fruizione diventa necessariamente un palinsesto di esperienze, di percezioni, di emozioni, che in qualche modo ci rendono parte attiva della manifestazione artistica stessa e non solo spettatori passivi.


E così, mentre le mie orecchie ascoltano il poema sinfonico e i miei occhi visualizzano il monolite, la mia mente viene distratta dal ricordo lontano di quando, solerte studentessa di cinema, andai al cinema Massimo a vedere la mitica Corazzata Potëmkin e, durante il celeberrimo montaggio analogico della scalinata di Odessa, non mi fu possibile evitare che altre immagini, meno nobili, si sovrapponessero nella mia mente a quelle di Sergej Ejzenštejn e un improvviso sonoro – “Muoia Filini – L’occhio della madre – Mi raccomando spingi piano” – serpeggiasse in sala.

Così parlò Zarathustra ma cosa disse non lo so, perché mi ero distratta, persa in un mare di ricordi sovrapposti, sono partita da lontano per arrivare al Secondo Tragico Fantozzi.

“L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo; una fune sopra l’abisso”
F.W.  Nietzsche

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