I clarinetti a volte ingannano: considerazioni semiserie su un capolavoro.

Sinfonia Patetica

Sinfonia n.6 in si minore “Patetica”

La primavera è arrivata e in questo momento di lieto risveglio della natura voglio regalarvi una potente botta di depressione parlandovi di una della sinfonie che amo di più, ovvero la Sinfonia n.6 in si minore del beneamato Pëtr Il’ič Čajkovskij giustamente nota come la “Patetica”.
Il compositore in persona raccontò di aver pianto moltissimo durante la scrittura della sinfonia e qui mi sento subito in dovere di rassicurarlo sul fatto che anche noi ascoltatori piangiamo moltissimo ogni volta che la ascoltiamo e non potremmo fare altrimenti perché la Patetica è una meravigliosa congiura strumentale per condurre l’ascoltatore ad attraversare tutte le fasi della propria personale disperazione fino ad arrivare a un finale senza luce.
Severo ma onesto il caro Pëtr Il’ič.

Primo movimento

Adagio – Allegro non troppo – Andante – Moderato mosso – Andante – Moderato assai – Allegro vivo – Andante come prima – Andante mosso

Si parte con i fagotti che intonano una melodia lugubre sostenuti dai contrabbassi, giusto per alzare un po’ il morale dell’orchestra e del pubblico.
Già dopo le prime 10 battute un ascoltatore dotato di un minimo di buon senso dovrebbe alzarsi e andare a bere una birra, che come sappiamo è uno dei migliori antidoti alla tristezza, ma il buon Pëtr Il’ič ha già inchiodato tutti alla poltrona facendo leva sul masochistico piacere di crogiolarsi un po’ nella depressione tipico di noi depressi.
Allora eccolo giocare con il dolore come il gatto con il topo: un colpo di clarinetti a illudere che forse la situazione non sia così disperata e poi giù di viole e violini a significare che invece no, non c’è via d’uscita.
E se non bastassero archi, corni e tromboni ci mette anche qualche sapiente tocco di percussioni giusto per pugnalare bene l’ascoltatore allo stomaco.

Poi si apre inatteso uno squarcio di luce in una giornata buia, con un ritmo pacato e una sonorità dolce nella quale vorremmo illuderci di poterci cullarci un po’.
E Pëtr ci culla con gli archi, con qualche nota di flauto e di clarinetto e perfino i fagotti non sembrano più così cupi.
Ma attenzione, è solo un’illusione, tutto quanto è un’illusione ed è proprio questo che il compositore ha capito e che ci sta dicendo attraverso le note.
Ogni volta che il tema si ripete è sempre un po’ più potente, un po’ più disperato ma tu ormai sei incatenato e vuoi arrivare fino alla fine, vuoi godertela e soffrirtela fino in fondo e nemmeno De Sade aveva mai osato tanto sulla bellezza del dolore.
È proprio nell’alternanza di brevi momenti di pace e di grandi cadute nel dolore che si svela il nocciolo della crudeltà della Patetica, che, non so a voi, ma a me ricorda tanto la vita…

L’allegro non troppo spezza la calma con un ritmo decisamente più concitato, ti scuote dal torpore semi-felice in cui ti eri adagiato con ottoni e percussioni ben sparati, anche se i clarinetti ogni tanto vogliono ancora illudere che la situazione possa avere un esito meno drammatico.
Finché arriva il culmine con gli ottoni e gli archi che si disperano a più non posso e questo non è che un piccolo assaggio dell’ultimo movimento.
Quando ormai sei precipitato nella tristezza gli archi tornano gentili e intonano il tema dolce, struggente e bellissimo.
Chiude positivamente con un simpatico pizzicato degli archi.

Secondo movimento

Allegro con grazia

Bello bello bello, bellezza allo stato puro, difficile immaginarsi qualcosa di più bello, e mentre stai pensando che sì davvero questa è la bellezza che salverà il mondo e per un attimo ti dimentichi di come va a finire il libro che diceva questa cosa, ecco che all’improvviso il timpano inizia a battere e gli archi intonano una melodia diversa, sempre bellissima, ma un po’ meno allegra e di nuovo i clarinetti cercano di fare i brillanti, ma archi e corni non la danno certo a bere e poi quel timpano sempre più forte…
Le due melodie si mescolano e di nuovo quella fitta al cuore.
Pëtr ci rassicura di nuovo con la prima melodia perché a noi mortali piace essere rassicurati, in fondo amiamo le bugie rassicuranti e anche l’orchestra ci dà corda, e fiati.
Ma ecco che sul finale fa di nuovo capolino, mascherato da variazione, un qualcosa che poi ritroveremo nell’ultimo fatale movimento.

Terzo movimento

Allegro molto vivace

Questo è veramente un momento disperato, cioè sotto la facciata di una festa di note scatenate si nasconde neanche troppo bene la disperazione quella vera, quella che ha bisogno della facciata scalmanata per coprire l’infelicità.
E non mi frega l’ottavino, qui, sotto questa finta aria di festa, c’è il dolore che agita la coda.
E non mi fregano i clarinetti – di nuovo questi clarinetti che si vogliono fingersi allegri – e nemmeno gli archi che fanno come quelli che sono sempre felici, sempre ubriachi e poi da un giorno all’altro scopri che sono dei depressoni doc.
Ci ricorda spesso e volentieri certe atmosfere magiche dello Schiaccianoci, ma qui è tutto un po’ più urlato, forse troppo per star tranquilli e se ascoltate bene trombe e tromboni capite che arrivato il momento di iniziare a preoccuparsi.
Ma se vogliamo continuare a fingere che vada tutto bene, stiamo pure al gioco, tanto la verità è lì giusto dietro l’angolo e la fine è nota.
Il movimento finisce in gloria con una marcia trionfale della sfiga, una Ouverture 1812 dei perdenti.

Quarto movimento

Finale. Adagio lamentoso – Andante 

L'ascoltatore durante il finale.

L’espressione tipica dell’ascoltatore durante il movimento finale della Patetica.

Ti eri divertito nel terzo movimento? Ti eri illuso che tutta quella “caciara” di trombe e tromboni fosse festante?
Peggio per te perché il quarto movimento inizia con gli archi che ti piantano gli archetti dritti nel cuore e ti catapultano della disperazione più nera.
Dai che in fondo sapevi che fino ad ora avevamo scherzato e la parte più vera è questa, sotto sotto sapevi che ti stavi ingannando, ti sarà anche piaciuto, ma adesso non si scherza più, adesso Pëtr Il’ič va fino in fondo e noi tutti con lui.
Io non riesco a immaginarmi niente di più straziante del tema di questo adagio e in genere a questo punto vorrei abbracciare forte Pëtr Il’ič dicendogli che sì lo capisco, capisco fino in fondo cosa sta dicendo.
Anche i clarinetti non riescono più a far finta di essere felici e poco alla volta anche loro si lasciano amalgamare nella tristezza dell’orchestra e allora se si lasciano andare loro possiamo farlo tutti e pensare che questo è il male di vivere che si rassegna ad essere tale sublimandosi in bellezza pura.
Ora, in un sentire comune, le nostre anime sono pronte a lasciarsi andare nell’Andante con i corni che procedono per gradi congiunti, un passo alla volta verso la fine.
E se gli archi ogni tanto si impennano in qualche stridio di dolore, l’orchestra li sostiene, dà loro corpo e li accompagna per mano verso la discesa.
I tromboni e la tuba segnano il passo, per la speranza non c’è più spazio e gli archi si rassegnano definitivamente.
E finisce così, lentamente, con un pizzicato di contrabbasso e un basso tuba nello stomaco.

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